di Valeria Bove / In principio era il Verbo.
Ma in principio, quel Verbo, non era proprio Verbo.
Nella versione originale la parola greca lògos viene tradotta con “verbo” in latino da San Girolamo – sì, proprio lui, il protettore dei traduttori. A ben guardare, però, la parola lògos possiede nell’italiano corrente tanti significati diversi: discorso, parola, pensiero, ragionamento e, secondo Treccani, Hegel l’associa alla ragione.
In un celebre passo del Faust di J. W. Goethe, il protagonista è rinchiuso nel suo studiolo, intento a scacciare l’influsso demoniaco che di lì a poco stravolgerà la sua vita. Per farlo, Faust prende in mano proprio il Prologo di San Giovanni e, letta la prima frase, si blocca. Sceglie diverse parole, a seconda della sua personale interpretazione, ma non sa come tradurre quella stessa parola: qualsiasi eteronimo lo lascia insoddisfatto.
Le parole sono mutanti, cambiano e si evolvono, non restano mai le stesse. Il loro mutamento è causato principalmente da noi, i fruitori della lingua. Lo so, è difficile pensare alla lingua come a un concetto astratto, un sistema. Le modalità – spesso inconsce – con le quali scegliamo e usiamo le parole in questo sistema sono determinate dalla nostra cultura di riferimento, dalla comunità linguistica in cui ci muoviamo, respiriamo, viviamo. E queste modalità ne determinano anche i significati. Aliquid stat pro aliquo, ma il secondo termine è instabile, soprattutto quando migriamo da una lingua all’altra.
Il linguista Roman Jakobson diceva che esistono tre tipi di traduzione: quella che facciamo quando cerchiamo altre parole per dire la stessa cosa (endolinguistica), quella che facciamo quando passiamo da una lingua all’altra (intralinguistica) e quella che facciamo quando passiamo da un mezzo di comunicazione all’altro, traducendo parole in immagini o in formato audio (intersemiotica). Tutti e tre i tipi implicano un passaggio, una transumanza di segni. E in effetti, sono ancora altre parole che ci vengono in aiuto: la parola tradurre deriva dal latino tradùcere ed è l’unione di trans “al di là” e ducere “condurre, portare”. A questa parola si ascrivevano i significati di attraversamento di un luogo da un punto A a un punto B, conquista, trascorrere del tempo, passaggio da uno stato d’animo all’altro (e quindi persuadere), ma anche trasmutarsi soggettivo in Altro.
La traduzione è ovunque. Cerchiamo continuamente parole, ci facciamo domande su nuovi significati che accogliamo da lingue Altre (e in questo ultimo anno, quante ne abbiamo aggiunte nel nostro vocabolario: da droplet a infodemia), traduciamo costantemente idee e pensieri in altre modalità di espressione, che sia sui social networks o nella vita quotidiana. Quando chiediamo a qualcuno “che significa?”, gli stiamo chiedendo di tradurre le sue parole in altre parole, per farci capire ed essere capiti.
Tradurre ci trasporta in luoghi insondati, è una compenetrazione di liminalità. E ancora, è associabile a un ecotono, cioè a quello spazio interstiziale la cui esistenza è necessaria per collegare due ecosistemi limitrofi. È in quello spazio che si negoziano significati, si fanno compromessi e si mercanteggia in parole.
Ebbene, trovare il giusto corrispettivo non è sempre facile. Un buon traduttore deve essere un buon traditore, per dirla alla Umberto Eco. Sa che per fare una buona traduzione, bisogna conoscere (e vivere) la cultura della lingua-sorgente o source, per riuscire a restituirla in tutte le sue sfumature nella cultura di arrivo o target. In altre parole, per tradurre bisogna conquistare una lingua e mettersi nei panni di un’intera cultura per accogliere pienamente l’Altro. Ed è per questo che la traduzione è necessaria: è lo spazio intermedio che ci dischiude l’umanità dietro le parole.