di Mariavittoria Veneruso / «Non era ancora nata la generazione di bambini afghani le cui orecchie non avrebbero conosciuto altro che il rumore di bombe e cannoni» scriveva nel 2004 Khaled Hosseini nel suo primo romanzo Il cacciatore di aquiloni.
Oggi tali parole suonano tristemente attuali, eppure le bombe e i cannoni di cui parla l’autore afghano risalgono al 17 luglio 1973, quando con un colpo di stato Daud Khan pose fine alla monarchia del cugino. Fu proclamata la repubblica e sembrava che tutto sarebbe cambiato; in realtà un capo aveva sostituito il precedente insediandosi nello stesso palazzo. In seguito ai conflitti che ne derivarono, tanti furono gli afghani costretti a fuggire, tra questi anche Hosseini.
Il suo primo romanzo, infatti, racconta una storia semi-autobiografica. Ma verso la fine del libro, il protagonista Amir anticipa ciò che poi Hosseini compirà nella realtà: tornare in patria per visitare i luoghi della propria infanzia. Generando così il singolare paradosso per cui è la vita dell’autore ad assomigliare al romanzo, e non il contrario.
Vent’ anni sono passati da quel ritorno, anni in cui l’Afghanistan ha conquistato faticosi progressi nel sistema sanitario, nell’educazione scolastica e nelle libertà personali dei cittadini, in particolare delle donne e delle ragazze.
E ora, tutto ciò è destinato a svanire. La civiltà e la cultura afghana scompariranno.
«Una società non ha nessuna possibilità di progredire se le sue donne sono ignoranti» afferma Hosseini in Mille splendidi soli, suo secondo capolavoro del 2007.
Attraverso i suoi primi due romanzi e poi con E l’eco rispose (2013), infatti, Hosseini ha dato voce a coloro che hanno sofferto e soffrono tutt’ora le vicissitudini di un paese in costante guerra. Una nazione tormentata da incessanti conflitti, raccontati da Hosseini con verità cruda e priva di filtri.
Ma dai suoi scritti emerge anche uno sguardo malinconico verso un paese che possedeva una bellezza originale, autentica, fatta di tradizioni antiche. Un popolo, watan in lingua farsi, composto da etnie differenti, come ogni popolo nel mondo d’altronde. Pashtun, hazara, tagiki e uzbeki, questi i principali gruppi etnici protagonisti dei romanzi di Khaled Hosseini.
«È insensato, oltre che pericoloso, tutto questo dire io sono tagiko, tu sei pashtun, lui è hazara e lei è uzbeka. Siamo tutti afghani, questa è la cosa che conta. Ma quando un gruppo domina sugli altri per tanto tempo… C’è disprezzo, rivalità. Ecco cosa c’è. È sempre stato così». Mille splendidi soli.
Grazie alle storie nate dalla penna di Hosseini, i lettori di tutto il mondo possono conoscere immagini, suoni e persino profumi afghani che i mass media non mostrano di solito.
«Come afgano, mi sento onorato quando i lettori mi dicono che questo libro li ha aiutati a rendere l’Afghanistan un luogo reale. Che per loro non si identifica più soltanto con le caverne di Tora Bora, le coltivazioni di papavero e Bin Laden. È un grande onore per me quando i lettori mi dicono che questo romanzo li ha aiutati a dare un volto particolare all’Afghanistan e che ora vedono la mia terra natale non più solo come l’ennesimo paese infelice, cronicamente senza pace, tormentato».
Le tradizioni secolari, le pietanze caratteristiche come il naan, il tipico pane afghano; oppure i mantu, i fagotti ripieni di carne di agnello; o ancora le kofta, polpette di carne. E il rubab e lo zerba ghali, gli strumenti musicali nazionali. La musica, la poesia, la cultura afghana vivranno per sempre nelle storie che Khaled Hosseini ha regalato al mondo.